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    Il Borgo Orefici: ‘l’oro di Napoli’!

    Nel ‘ventre’ di Napoli, tra via Marina e corso Umberto I, si estende il cosiddetto Borgo Orefici. Fu la regina Giovanna d’Angiò alla metà del XIV secolo a dare il primo riconoscimento ufficiale alle attività dei maestri orafi: da allora in quell’intreccio di vicoli s’insediarono i gioiellieri napoletani, da cui il quartiere prese il nome. Successivamente, verso la fine del XVII secolo, il viceré di Napoli Gaspar Méndez de Haro y Guzmán stabilì l’obbligo di esercitare l’arte degli argentieri e degli orafi unicamente in quella zona, situata tra il porto e il centro antico.

    La maggior parte degli arredi sacri delle chiese di Napoli (tra cui quelli del celebre tesoro di san Gennaro), sono stati creati in queste botteghe, così come i gioielli delle nobili famiglie di un tempo, che ancora oggi si tramandano in eredità da madre in figlia. Così da più di sette secoli il Borgo Orefici è sempre lì, non ha mai, caso unico al mondo, perso la sua identità, rimanendo sempre il luogo perfetto dove recarsi in cerca delle migliori oreficerie di Napoli.

    I vicoli sono cambiati, i negozi riammodernati, ma l’arte orafa è rimasta quella di allora, pazientemente trasmessa ‘di mano in mano’ con la generosità e la consapevolezza di tramandare un bene inestimabile.

    Nel cuore di questo particolare sito, in piazza Orefici, è situato un Crocifisso ligneo settecentesco, la cui unicità sta nel poter essere ammirato da entrambi i lati. Un Cristo ritenuto miracoloso, trovato nella periferia di Napoli e portato lì per devozione da un commerciante in pietre preziose dopo aver ricevuto una grazia per suo fratello, affetto da una grave forma di asma. La prodigiosa immagine, divenuta un simbolo, secondo la più autentica devozione tipica del popolo partenopeo, è posta sotto una copertura in rame battuto e sostenuta da un basamento dove sono rappresentate scene della Passione.

    Nella stessa piazza dal 2015 si trova una lapide commemorativa dedicata a Matteo Treglia, l’orafo napoletano che realizzò la famosa mitra che adorna il busto di san Gennaro presente nel Duomo, vero e proprio capolavoro realizzato con 3694 pietre preziose!

    Chiese di San Giovanni a Mare e di Sant’Eligio Maggiore

    La chiesa principale del quartiere è San Giovanni a Mare, in cui è possibile ammirare

    un’imponente testa marmorea di donna ritrovata nel 1594 nella zona

    dell’Anticaglia, di cui l’originale è oggi a Palazzo San Giacomo.

    Non di meno, per bellezza e antichità, vi è nel borgo una chiesa tra le più conosciute di Napoli, quella di Sant’Eligio, il protettore degli orafi, costruita nel 1270.

    Pur essendo stata vittima di incendi, terremoti e dell’incessante scorrere dei secoli, il suo campanile e l’antichissimo orologio costituiscono ancora una testimonianza preziosissima della nostra storia e della vita di tutti coloro che animano il luogo più prezioso di una delle più straordinarie città al mondo.

    La mia passione: il mio ‘lav-oro’.

    Ho voluto fortemente iniziare il mio personale racconto con una premessa in cui illustrare il Borgo Orefici. Ripeto, volutamente, perché in questo sito ha inizio la mia storia, perché considero quel luogo la mia casa.

    Conosco a menadito ogni angolo, ogni locale e se chiudo gli occhi, per un attimo, rivedo, come in un film, in ogni bottega i maestri orafi, gli incastonatori, i pulitori che ho avuto la fortuna d’incontrare nei miei oltre cinquant’anni di attività. All’epoca, nel lontano 1968, quando fui assunto come ragazzo di bottega dalla ditta di gioielli dei fratelli De Maria i vicoli brulicavano di gente: gioiellieri da tutta l’Italia venivano a comprare articoli per i loro negozi, nonché nobili, professionisti, ma anche semplici persone, che dai paesi vicini venivano a Napoli per ‘fare la dote’ alle figlie. Vi era una serena collaborazione tra una bottega e l’altra: i maestri, che si conoscevano e si rispettavano da una vita, scambiavano tra di loro pietre e oggetti preziosi, basandosi soltanto sulla parola! Per quegli uomini abituati ad avere tra le mani tesori, a volte di valore inestimabile, la ‘sola parola’ valeva molto più di un contratto scritto o di un atto notarile. Dai fratelli De Maria, per la prima volta, sui banchi da lavoro vidi l’oro, l’argento, le gemme e quelle pietre luccicanti, i diamanti, che gli artigiani con disinvoltura e professionalità maneggiavano per creare gioielli. Rimasi incantato! Smeraldi, rubini, zaffiri,… sparsi sui  tavolini, incastonati da abili mani, divenivano oggetti meravigliosi: sotto i miei occhi increduli nascevano cigni fatati, teste di tigri, bouquets con fiori e foglie en tremblant, che sembravano mossi dal vento, con la stessa leggerezza di quelli naturali.

    Mi innamorai subito di quel lavoro, di quell’arte che dovevo fare assolutamente mia. La lavorazione in argento e oro dei fratelli De Maria era soprattutto secondo lo stile ‘antico’, all’epoca molto in voga, che appresi con particolare interesse, desideroso di scoprire tecniche di lavorazione che si tramandavano da secoli.

    Gli inizi

    Successivamente passai a un altro laboratorio di indiscusso prestigio, quello di Giovanni Virgilio in via Cervantes. Avevo ‘bisogno’ di imparare, bene e presto! Essere accolto da personaggi di tale caratura − è il caso dirlo − era un grande privilegio che non potevo perdere. Quegli apprendistati erano i moderni stages.

    Ma allora li vivevamo come passaggi di routine: al vecchio maestro serviva l’allievo, pronto ad aiutarlo, soprattutto nei lavori più faticosi; all’allievo serviva il maestro per imparare quel mestiere che gli avrebbe consentito di crescere e rendersi indipendente. L’azienda di Virgilio rappresentava l’eccellenza partenopea: a Napoli era prima per professionalità artigianale, oltre che per qualità delle pietre preziose adoperate e dei materiali utilizzati, tra cui il platino, tanto che la sua fama era divenuta addirittura internazionale, collaborando e operando per le migliori gioiellerie italiane ed estere. Contava circa quaranta dipendenti, tra artigiani e disegnatori, e le pietre preziose che montavamo erano, spesso, così grandi da essere prese con le dita anziché con le apposite pinzette!  Quando Giovanni Virgilio trasferì la sua azienda a Milano andai a lavorare da Gennaro Marfè, altro celebre orafo che proveniva dalla scuola di Ventrella. E in quel periodo conobbi una donna speciale che da allora è diventata la mia compagna, la mia consigliera, la mia spalla: mia moglie Luisa.

    Un gioiello stravagante

    Decisi, successivamente, di passare a un’altra ditta, che faceva capo a don Elio Ciardulli, con sede a Santa Lucia. Quel ‘don’ prima del nome aveva e ha un significato ben preciso, a Napoli, come in gran parte del sud Italia; così il rivolgersi con il ‘voi’ piuttosto che con il ‘lei’: forme di ossequio verso gli uomini considerati di molto riguardo, da ammirare e rispettare. Perciò il ‘voi’ e il ‘don’ a un maestro come Ciardulli era spontaneo, dovuto al cipiglio severo che nascondeva un cuore d’oro − come il materiale con cui forgiava i suoi gioielli − capace di creare armonia mentre si lavorava, insegnando la sua arte senza altezzosità; non si spazientiva mai, anche quando un oggetto era… tutto da rifare, perché realizzato male da un suo dipendente: in tal caso, semplicemente, si rivolgeva al ‘colpevole’, così, in napoletano «guagliò, chi fraveca e sfraveca nun perde mai tiempo!» (chi fa e disfa non perde mai tempo), rimproverandolo certo, ma graziandolo. Quanti ricordi affollano la mia mente! Molti, legati soprattutto alle tecniche artigianali e alle materie prime usate, ma anche a quei clienti che sapevano apprezzare quelle piccole, grandi opere di gioielleria, acquistandole con soddisfazione ed entusiasmo. Quanti aneddoti potrei raccontare legati a quegli anni in cui il termine ‘crisi economica’ pareva non esistesse; rammento che alcuni preziosi venivano commissionati da persone con richieste originali e stravaganti, come quando realizzai un gioiello di valore… per un cavallo! Era un grande stemma di oro e pietre preziose a forma di rombo, che, con rocamboleschi fili del medesimo materiale, veniva posto sulla testa del cavallo e scendeva, morbido ma fermo, sopra i suoi occhi. Che tempi! Del resto don Elio Ciardulli serviva le gioiellerie della ‘Napoli bene’ e la clientela più in. Per tale motivo il monile, l’oggetto, qualunque fosse il prezzo, doveva essere perfetto.

    Una mamma imprenditrice

    Trascorso qualche tempo alcuni ex dipendenti di Virgilio, trasferitosi ormai definitivamente a Milano, fondarono una società: L’Artigiana Gioiellieri.

    Fui invitato a lavorare con loro e lì rimasi come dipendente fino al 1980. L’anno dopo mi sentii finalmente pronto per lavorare da solo, ma per ‘spiccare il volo’ occorreva avere un discreto capitale, necessario per acquistare le materie prime. Intanto la mia famiglia era cresciuta, mi ero sposato ed erano nati i miei figli, Gennaro e Vincenzo. Spesso in quel periodo mi ritrovavo a pensare a mia madre: un’abile artigiana nel lavorare le pelli per i guanti, quando i guanti napoletani erano i più celebri al mondo. Alla morte prematura di mio padre, si rimboccò le maniche e fece il grande passo: aprire un’impresa tutta sua per la realizzazione di guanti. Si impose subito nel settore, perché i suoi manufatti erano molto ricercati, per la qualità dei materiali e per la lavorazione. Le vendite andavano  a gonfie vele, sia a Napoli che a Milano. Per l’epoca, era una donna che usciva fuori dagli schemi sociali, con una mentalità imprenditoriale all’avanguardia. Così, anche grazie a lei e al suo lavoro, malgrado avessi perso mio padre all’età di circa dieci anni, della mia infanzia ho un ricordo bellissimo: nonostante una famiglia numerosa giocattoli e vacanze non mancavano mai. Sulla scia di quell’emozione, pensando al coraggio e alla capacità di mia madre, decisi di seguire le sue orme, di fondare una mia ditta. Quel sogno, al momento, lo realizzai a metà. Con un caro amico, Alfredo Antonacci, fondai una società. Il laboratorio lo trovammo nel ‘mio borgo’, in un primo piano a piazzetta Orefici. Lavoravamo sodo, senza soste, molte volte chiudevamo all’una di notte.

    Un incontro fortunato

    In quel periodo una cara persona, Salvio Grande – entusiasta per un anello da me realizzato che aveva regalato alla moglie – mi presentò un suo amico, Fabrizio Knight, il proprietario della più antica e importante gioielleria di Napoli.

    Fu un incontro per me fondamentale, una vera fortuna, perché conobbi una persona squisita, dotato di una innata eleganza, conoscitore esperto e competente come pochi di oreficeria e gemmologia. Con Knight ebbi subito una grande intesa professionale: le sue commesse erano opere del suo impareggiabile estro e del suo raffinato ingegno; quando mi recavo da lui per gli ordinativi  all’istante disegnava su un semplice foglio di carta gli schizzi degli oggetti che desiderava creassimo per la sua esigente clientela.

    Finalmente una finestra sul mare

    Forte di questa nuova esperienza, quando con Alfredo chiudemmo la società, grazie al guadagno di quegli anni di duro lavoro, riuscii finalmente ad aprire un mio laboratorio. Si trovava a pochi passi dalla mia piazzetta, nel mio Borgo, alla II traversa Orefici, al secondo piano. Il palazzo era piccolo, senza ascensore, i gradini della scala d’accesso erano così alti che veniva l’affanno solo a guardarli, il balcone del piccolo laboratorio dava su un vicolo stretto, angusto e aveva di fronte un imponente, vecchio palazzo. Ma la mattina, quando arrivavo e aprivo la mia finestra, io, solo io, vedevo il mare.

    Lì, dopo la scuola mi raggiungevano i miei due figli Gennaro e Vincenzo e sempre lì, mia moglie Luisa, che mi aiutava nella modellatura e pulitura degli oggetti, nonché nella contabilità e nelle vendite, riuscendo a preparare anche un piatto caldo per tutta la famiglia. L’arte che avevo appreso la trasmettevo giorno per giorno ai miei due figli e ai miei primi ragazzi di bottega. Tra questi Sergio, mandato dal padre, uno dei mei maestri, Gennaro Marfè. La storia si ripeteva, come un’infinita catena, e oggi Sergio ha un suo laboratorio di gioielleria al Vomero.

    Come tanti di quei ‘miei’ giovani che, ormai padri di famiglia, hanno una propria attività e, di sicuro, altri ragazzi di bottega.

    Oltre confine

    Nel 1994, oltre a lavorare su commissione, con i miei familiari riuscimmo a  creare finalmente una nostra linea, brevettammo alcuni modelli e battezzammo la neonata azienda con il suo definitivo nome: Generoso Gioielli 1970. Insieme, convenimmo di allargare il mercato di vendita dei nostri manufatti e con Luisa cominciammo a partecipare a diverse fiere in Italia e all’estero. Fu un trampolino di lancio che ci fece conoscere in Spagna, in Francia, nei paesi arabi, a Hong Kong,… dandoci una visibilità tale che ancora oggi con mia moglie e i miei figli continuiamo a essere presenti alle principali fiere e mostre del settore.

    Nel 2008, durante la piena crisi economica mondiale, insieme a una gran parte di orafi del Borgo Orefici lasciammo Napoli e trasferimmo il nostro laboratorio, la nostra azienda al neonato polo orafo Oromare, a Marcianise, tra Napoli e Caserta.

    Una realtà sorta sull’onda dell’entusiasmo, spinti dall’offerta di maggiori servizi, dalla possibilità di impiantare strumentazioni tecnologiche all’avanguardia, dalla garanzia di una sicurezza e di un controllo impensabili altrove. Nel laboratorio oggi siamo undici: sette dipendenti e noi quattro di famiglia. Inutile dire che siamo un team unito, affiatato, sempre pronto a nuove sfide.

    Gioielliere di corte

    Ma una data ha per me un valore speciale: il 2014. Un mio amico edestimatore, il dott. Aldo Antonio Cobianchi, con cui avevamo ideato e realizzato sfilate ed eventi, era stato chiamato a organizzare una manifestazione di portata internazionale: la beatificazione della regina delle Due Sicilie Maria Cristina di Savoia di Borbone. Per l’occasione giunsero a Napoli personaggi illustri provenienti da tutto il mondo tra cui le LL. AA. RR. le principesse Beatrice e Camilla di Borbone delle Due Sicilie, rispettivamente sorella e moglie di S.A.R. il principe Carlo, erede al trono del nostro antico regno e discendente della Beata. Cobianchi mi propose di far indossare, nell’occasione, alle Altezze Reali dei gioielli di mia creazione, secondo un’antica tradizione che voleva le sovrane borboniche ambasciatrici dell’arte napoletana in cerimonie pubbliche di particolare rilevanza. Senza esitazioni, incredulo per l’onore concessomi, accolsi l’invito. Qualche mese più tardi mi arrivò una lettera in cui venivo nominato Fornitore ufficiale della Real Casa di Borbone delle Due Sicilie! Ancora oggi non riesco a descrivere ciò che provai: una gioia indicibile e la più totale incredulità. Non orgoglio, né autocompiacimento: semplicemente scorrevo gli occhi su quel foglio con lo stemma dei nostri antichi sovrani e il mio nome come se appartenesse a un’altra persona. E ripensavo ai sacrifici e alle soddisfazioni di tutta una vita.

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      Fornitore ufficiale della Real Casa di Borbone delle Due Sicilie

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